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Sesso al telefono: L'incidente di una poliziotta

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Sotto l’uniforme indossavo mutandine bianche e un reggiseno jersey, oltre a una maglietta bianca. Sopra avevo solo una camicetta dell’uniforme e i pantaloni foderati dell’uniforme, i calzini invernali spessi e gli stivali invernali. Mi sono infilata il mio lungo e spesso piumino e sono uscita nel tempo nebbioso e noioso di febbraio. Ho in mano un sacchetto di plastica con la biancheria di ieri. In realtà non avevo intenzione di dargli i soldi, ma sono comunque andata al bancomat e ho prelevato i 300 euro nel caso li volessero vedere prima di darmi le foto.

Ora, alle 10 meno 11, ieri ero nel corridoio del luogo della mia umiliazione, ho fatto un altro respiro profondo e poi sono entrata. Quando sono arrivata al terzo piano, ho cercato brevemente la stanza C11. Ho trovato una porta d’acciaio arrugginita spalancata e quella di fronte, che mi dava le spalle, appoggiata su un vecchio banco da lavoro. Anche qui le finestre erano ingiallite, sporche e davano una luce forte ma diffusa, sono entrata nella stanza e ho commesso un enorme errore da principiante.

Ho visto solo le foto istantanee sparse sul banco da lavoro, e non ho guardato né a destra né a sinistra, e nemmeno dietro la porta, che era aperta quasi fino al muro. Mi hanno notato solo quando mi sono fermata a circa un metro da loro e gli ho detto: “Io sono qui. Sono queste le foto? Allora chiudiamo questa faccenda o torniamo a casa”. Si voltarono velocemente e mi guardarono mentre camminavo ricambiando il loro sguardo con sicurezza.

“Non così in fretta. Dove sono i soldi e le cose e togliti la giacca, mostra l’uniforme!” La voce del “leader” di ieri mi lascia perplessa, lui era troppo sicuro che avessi seguito le istruzioni. Ma non mi sono lasciata intimidire, ho gettato loro il sacchetto di plastica e ho tirato fuori la banconota da 50 euro dalla tasca della giacca, ma l’ho subito infilata senza indugi nella tasca della giacca che mi sono poi tolta e la tenevo in mano.

Dietro di me sentii scricchiolii e cigolii dalla porta d’acciaio. All’inizio mi sono limitata a girare la testa, poi sono letteralmente sobbalzata. Altri amici apparvero dietro la porta, la chiusero e infilarono un enorme chiavistello nel suo supporto. Ora vennero verso di me, nelle loro mani tenevano tubi di gomma pieni e tagliati lunghi circa 50 cm, colpendoli minacciosamente sui palmi. Deglutendo e scioccata mi sono voltata verso gli altri, ora anche loro avevano questi tubi in mano, li avevano tenuti nascosti dietro di loro sul banco da lavoro.

La giacca mi scivolò dalle mani e cadde a terra, indietreggiai. “Ragazzi, cosa dovrebbe significare? Cosa volete da me?” Il mio respiro era già leggermente accelerato per la paura. Ancora una volta sono caduta ingenuamente in una trappola. Si chiusero in cerchio intorno a me, a una distanza molto ravvicinata. Mi girai avanti e indietro, cercando di prepararmi per evitare ogni possibile colpo. “Quindi, piccola stronzetta, ora prendi ciò che meriti”, mi ha parlato minacciosamente.

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Mi sentivo a disagio, mi è venuto il panico, qui posso urlare quanto voglio, tanto tanto nessuno mi sentirà, ne ero consapevole. Tutto quello che potevo fare era cercare di proteggermi il più possibile. Mi guardai freneticamente attorno, ero circondata e respirando pesantemente per la paura ho implorato: “Ragazzi, per favore, non fatelo. Per favore lasciatemi andare. Non è ancora successo nulla e possiamo lasciar perdere”. “Ci stai minacciando, puttana?”, rispose semplicemente. Ero in piedi di fronte a loro quando un sibilo attraversò l’aria e il tubo mi colpì la schiena.

“AAAAAAH”, ho urlato dolorosamente e il colpo mi ha fatto girare leggermente e allungarmi nella mia schiena incavata. Allo stesso tempo anche gli altri tubi mi hanno colpito, uno davanti e uno dietro. Ho dovuto piangere di nuovo dal dolore. Ora picchiano con gli idranti la poliziotta indifesa nel loro cerchio. Mi colpirono il seno, il culo, la schiena, le cosce e l’inguine. I colpi mi spingevano e giravano da una parte all’altra. Dopo diversi minuti, mi trovavo nel cerchio con le ginocchia deboli e tremanti, raggomitolate insieme ma ancora relativamente erette.

Ansimando pesantemente, riuscii a non piangere. Non volevo dargli la soddisfazione. “Dai, puttana, togliti i vestiti, tutto”, ordinò il leader. Intimidita, cominciai lentamente a spogliarmi. Riuscendo a malapena a stare in piedi, ho iniziato con stivali e calzini, poi con la camicetta, pantaloni, maglietta e reggiseno. Poi mi coprii il seno con entrambe le mani e tenni addosso le mutandine. “COSA NON COMPRENDI?” gridò: “Ragazzi, quella stronza ha bisogno di qualche altro colpo.” I loro colpi con le manichette mi colpirono di nuovo. Mi hanno sballottato avanti e indietro ancora.

Questa volta sono caduta a terra dove giacevo raggomitolata piagnucolando. “Stai in terra, stronza”, mi è stato gridato. Obbedii con difficoltà, tremando mentre stavo accasciata sulle gambe tremanti nel freddo laboratorio. “Togliti le mutandine, ma velocemente”, fu l’ordine, “e poi girati lentamente. Mostrati.” Questa volta ho obbedito velocemente e, deglutendo, ho cercato di stare un po’ più dritta, senza coprire il mio piccolo pelo pubico biondo naturale, ben curato e ben tagliato.

Chiusi gli occhi, non volendo vederli fissarmi. Adesso quei tubi colpivano di nuovo il mio corpo dolorante. Caddi rapidamente a terra. Ma questa volta il pestaggio non si è fermato. Hanno continuato a picchiare la donna, che si contorceva sul pavimento sporco e polveroso e gemeva di tormento. Non importa come mi rivoltavo sul terreno accidentato. I colpi continuavano a colpirmi, colpendomi le tette, la figa, il culo, la schiena, lo stomaco e ora anche le piante dei piedi. Ma mai il mio viso o le mie mani.

Ci sono voluti diversi altri minuti prima che il pestaggio finisse. Ero già un relitto piagnucoloso. Adesso mi hanno tirato su, afferrandomi con forza per le braccia e trascinandomi sul banco da lavoro. Mi ci hanno brutalmente gettato sopra, mi hanno spinto la schiena con le mani e hanno premuto i miei seni e i miei capezzoli contro il legno, il mio culo era rivolto verso di loro. Per molto tempo non sono riuscita a reagire ed ero diventata solo un pezzo di carne. Uno di loro stava dietro di me in modo che i suoi piedi fossero premuti contro la parte esterna dei miei piedi, non potevo aprire la gamba.

Premuta da un lato sul banco da lavoro, ora sentivo un duro glande spaccarmi leggermente le labbra e spingersi con difficoltà nella mia fica asciutta e appena aperta. Volevano causarmi il massimo dolore. Penetra lentamente sempre più in profondità, allungando i miei muscoli, la mia testa è andata indietro e ho gridato di nuovo dal dolore. Solo quando l’ebbe completamente affondato e le sue palle colpirono il mio addome mi permise di aprire di più la gamba e ottenere un po’ di sollievo. Tuttavia, ciascuna delle sue spinte a scatti e sconsiderate mandava dolore attraverso il mio corpo martoriato.

Ancora e ancora gridavo di dolore, o crollavo, gemendo e piangendo. Uno dopo l’altro sono stata violentata da tutti per la prima volta. Ma questo non pose fine alla mia tortura o alla mia umiliazione. Poi fui sollevata e gettata a terra sulla schiena. Si sono accovacciati sopra e accanto a me, mi hanno spinto a terra e uno mi ha infilato degli imbuti in bocca. Poi ha scaricato la vescica. L’urina disgustosa mi colò lungo la lingua e in gola. Ho dovuto ingoiarne la maggior parte, soffocando e farfugliando, e un pò mi è uscita dalla bocca oltre l’imbuto e mi è colata lungo il viso.

Anche questa tortura è stata ripetuta più volte. Dopo mi hanno fatto sdraiare e hanno fumato una sigaretta con piacere, ho provato a riprendermi, a sedermi, ma i miei muscoli stavano cedendo. Si appoggiarono al banco da lavoro e mi guardarono mentre strisciavo verso l’uscita, completamente esausta. Ora venivo spinta di nuovo a terra con un piede, poi tirata su di nuovo con la parte superiore delle braccia e trascinata all’indietro sul banco di lavoro. Questa volta sono caduta sulla schiena. Ho sentito un dolore pungente allo stomaco, poi un altro, un terzo e un quarto su entrambe le tette che mi hanno fatto piangere di nuovo.

Mi avevano spento le sigarette e ora me ne ficcavano i mozziconi in bocca, ho tossito ma ovviamente il sapore è rimasto. Ora le mie gambe erano state separate e dovevo lasciare che tutti mi usassero di nuovo brutalmente. Si sono divertiti con me e non appena l’ultimo è uscito da me, sono caduta sul pavimento con la faccia allungata. Uno di loro mi cadde pesantemente sulla schiena, facendomi uscire l’aria dai polmoni.

Sentii il suo glande, già di nuovo duro, sul mio buco del culo vergine. Ancora una volta ho dovuto urlare forte perché ora ero brutalmente deflorata analmente, la sua lancia mi ha trafitto il sedere ed è penetrato nel mio intestino, poi anche gli altri mi penetrarono a turno di nuovo infilandomi i loro cazzi nel culo.

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Cominciò a fare buio.
Ho sentito confusamente che mi avrebbero minacciato di morte se li avessi traditi. Ho visto con occhi annebbiati e offuscati come hanno raccolto i miei vestiti, tranne il mio piumino, da cui hanno preso solo 300 euro, e li hanno portati con sé, come alla fine mi hanno lasciato andare e se ne sono andati ridendo e sorridendo. Sono rimasta maltrattata e tormentata, raggomitolata nella polvere polvere tra urina e sperma e singhiozzando violentemente, tremando di freddo e piangendo.

Ci vollero ore prima che, nel cuore della notte, appena illuminato dalla pallida luce della luna, mi riprendessi abbastanza da ricompormi e cercare la mia giacca nell’oscurità. Alla fine l’ho trovata, ma sono riuscita solo a far scivolare le braccia intorno e a mettermela sulle spalle. Inciampai e barcollai giù per le scale riuscendo ad arrivare al piano terra senza cadere. Ma ora non avevo più nulla a cui aggrapparmi, cadendo ancora e ancora e lottando per rialzarmi, mi trascinavo lungo la strada di casa.

Poco dopo il sottopassaggio sono caduta di nuovo, solo che questa volta non sono riuscita a rialzarmi. Lasciata sul ciglio della strada, completamente esausta, i miei occhi si chiusero e il mio mondo sprofondò nell’oscurità.
Quando ho riaperto gli occhi, ho guardato la luce intensa e ho sentito materiali caldi e morbidi sul mio corpo. C’era un ago nel suo braccio sinistro che portava a un tubo da una flebo. I cavi portavano da un camice ospedaliero a un monitor che mostrava immagini regolari. Il dolore era quasi scomparso dal mio corpo. Nella mano destra ho sentito una grossa manopola, che si è rivelata essere un pulsante di chiamata che ho subito premuto.

Un’infermiera e un giovane medico vennero subito da me. Mi hanno esaminato e sono stati lieti di vedere che ero sopravvissuta alla violenza. Mi erano rimasti solo pochi lividi e abrasioni, e anche le piccole bruciature delle sigarette guarivano bene e non lasciavano cicatrici. Le mie deboli domande su come sono arrivata qui e da quanto tempo ero rimasta qui, sono state evitate dicendo che avrei saputo tutto dal commissario responsabile. Sarebbe stata da me tra circa un’ora e mi avrebbe parlato. In quel momento sono riuscita a tornare in me ancora di più cercando di ricordare cosa era successo.

Lo sapevo fin troppo bene. Non riuscivo a togliermi dalla testa il ricordo del mio martirio, ma l’ultima frase che hanno detto continuava a martellarmi il cervello ed è rimasta ferma nei miei pensieri. “Ti uccideremo se ci tradirai.” Quando l’ispettore arrivò avevo messo insieme una storia da raccontargli. Allora iniziai a raccontare i fatti con la mia voce ancora debole e incerta.

“Sabato mattina sono uscita molto presto al buio, mi ero messa solo il piumino sopra la tuta da jogging e volevo solo andare al bar del distributore di benzina poco distante da casa per fare una veloce colazione. Stavo passando davanti a un furgone scuro quando all’improvviso mi hanno messo una borsa sulla testa da dietro e me l’hanno legato al collo. A causa di questa repentinità mi sono ritrovata subito sotto shock all’interno del furgone. I rapitori mi hanno portato in giro per tutta la città e infine mi hanno trascinato in un edificio apparentemente vuoto, non so dove”.

“Nonostante la mia forte resistenza, sono stata rapidamente completamente spogliata e picchiata con oggetti di gomma flessibili, per tutto il tempo non sono riuscita a reagire e a vedere i miei aggressori. Alla fine, sono stata violentata ripetutamente per via anale e vaginale, probabilmente da persone di sesso maschile. Dopo un’eternità fui rimessa in macchina e scaricata dopo un lungo tragitto. Solo allora mi hanno tolto il sacchetto dalla testa ma prima che potessi vedere qualcosa, se ne erano andati, potevo vedere solo debolmente le luci posteriori del furgone e mi sfuggiva che ero al sottopassaggio e che per qualche motivo mi avevano messo il piumino.
Poi non so più cosa sia successo”.

L’ispettore annuiva sempre con un sorriso e comprensione, la mia storia corrispondeva alle tracce trovate sul posto e sul mio corpo. Mi ha detto che un pensionato che stava portando a spasso il suo cane mi aveva trovato priva di sensi, nuda e gravemente maltrattata sul ciglio della strada vicino al tunnel pedonale domenica mattina. La mia giacca era all’altra estremità del sottopassaggio. Devo aver perso i sensi mentre mi trascinavo attraverso il tunnel con le ultime forze. Ho saputo che ero priva di sensi da giorni.

Rimasi in ospedale per altre settimane di recupero e osservazione. Ma ora ricevevo visite ogni giorno, a volte colleghi della guardia, a volte vicini o persone del mio insediamento che mi conoscevano. La mia migliore amica, che avevo conosciuto durante l’allenamento, veniva regolarmente ogni volta che il suo lavoro lo permetteva. Allo stesso tempo guardò anche il mio appartamento. 

Anche il mio ex mi ha fatto una breve visita di cortesia e anche il mio aggressore mi ha regalato fiori e fatto gli auguri. Nessuno si è accorto che minacciavano di uccidermi di nuovo se avessi rivelato qualcosa. Avevo promesso che mi sarei attenuta alla mia versione e che non aveva nulla da temere. Dopo la sua breve visita, non ho lasciato trasparire la mia paura.

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